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martedì 23 novembre 2010

Darcy James Argue @ T Manzoni

© Darcy James Argue

La musica raffinata e incisiva di Darcy James Argue (e dei 18 musicisti che compongono la big band Secret Society) ha scaldato dal palco del Teatro Manzoni una mattinata domenicale gonfia di pioggia e grigiori atmosferici. D J Argue è un abile compositore che sa spostarsi tra generi e umori musicali. Nelle sue composizioni ci sono echi sonori che evocano tanto Steve Reich quanto i Tortoise e i Tangerine Dream, nonché le immagini di 'vintage fantascientifico' proprie di fumetti come 'La Lega degli Straordinari Gentlemen' di Alan Moore. Di seguito trovate l'intervista concessa da D J Argue in esclusiva a 'AperitivoBlog'.


Jazz, post-rock, nu swing, exotica, colonne sonore, classica ottocentesca, avanguardia. La tua musica è il punto d’incontro tra generi ed epoche distanti. Come riesci a gestire il difficile compito di mettere in contatto stili e costumi tanto diversi?
“Io credo che la mia musica sia un riflesso di ciò che ascolto. Tento di incorporare nei pezzi che scrivo tutti gli elementi che ritengo significativi, sintetizzando numerose influenze per dare vita a un unico linguaggio che comprenda indie rock, post minimalismo, big band jazz”.


Una miscela personalizzata?
”Sì, allo scopo di arrivare ad un mio linguaggio, originale, unico e, soprattutto, plausibile. Per me è fondamentale che gli elementi presenti nella musica – melodie, ritmi, arrangiamenti – siano credibili. Così, quando chiedo alla mia big band di suonare un brano che ha forte componente rock, guido i musicisti affinché usino e mostrino quel tipo di energia musicale. Questo rende credibile l’esecuzione. È necessario fare uno sforzo di immedesimazione che riesce solo ai musicisti ‘speciali’, in grado di suonare qualsiasi cosa. Ci sono moltissimi bravi strumentisti che si trovano in difficoltà perché non hanno un vocabolario sufficientemente ricco e versatile. Queste lacune impediscono quel processo di immedesimazione di cui parlavo poco fa e portano a vivere la musica in superficie. Mentre è basilare essere sempre in condizione di suonare con passione e autorevolezza”.


Tra i tuoi maestri hai citato uno dei più grandi sceneggiatori di fumetti di tutti i tempi, Alan Moore, il creatore di capolavori come Watchmen, From Hell, League of Extraordinary Gentlemen. In quest’ultima graphic novel l’autore immagina un’epoca vittoriana fantascientifica, dove pullulano agenti speciali, computer analogici e/o meccanici, sofisticate apparecchiature che funzionano a vapore, dirigibili avveniristici e mongolfiere old style. Una sorta di  'vintage science fiction' che venne opportunamente definita 'steampunk' ed ebbe il suo momento di massimo fulgore a cavallo tra li anni Ottanta e Novanta. La tua big band è una "steampunk big band"?
“In effetti mi è capitato di usare la definizione ‘steampunk’ per descrivere sinteticamente Secret society, la big band che ho fondato nel 2005. Oltre a me ci sono 18 musicisti che usano strumenti classici, ovvero acustici (ad eccezione di un ‘modernissimo’ piano elettrico Fender Rhodes), riconfigurati in modo da portarli nella modernità e, quindi, al presente. Da una parte c’è il fascino della tecnologia vecchio stile, il pensare senza nostalgia al ‘futuro di una volta’. Dall’altra c’è la voglia di usare il passato per guardare al futuro e cercare di raggiungerlo. Quando esordirono, nella seconda metà del Novecento, le big band elettrificate trasformarono il modo di fruire la musica dal vivo. Sino a quel momento il suono acustico aveva costretto o indotto gli organizzatori a portare i concerti in luoghi di piccole o medie dimensioni. L'arrivo di amplificatori e pick up provocò una svolta, creò la possibilità di suonare per le grandi masse. Ma cosa sarebbe successo se una fantomatica tecnologia a vapore avesse anticipato il cambiamento rendendolo possibile, diciamo, già a metà Ottocento? Questa è la tipica ipotesi di storia alternativa à la steampunk. Aggiungo che, per me, parlare di steampunk vuol dire fare riferimento alla volontà di reinventare le possibilità per gli strumenti acustici, trovando nuove modalità e nuovi approcci per fare con i citati strumenti anche qualcosa che non rientrava nei piani di chi li aveva costruiti”. 


Operare con strumenti tradizionali in modo non tradizionale quindi?
“Direi in modo non convenzionale: questo ti porta ad un approccio che è simultaneamente  anacronistico e alterativo. Usi gli strumenti della Storia per creare una Storia alternativa, torni indietro nel tempo per commentare il passato e riscrivere il presente. Il riferimento a Alan Moore e allo steampunk è questo. E io l’ho portato nella mia musica”.
© Alan Moore - ABC


Molte delle tue composizioni – tutte strumentali - hanno una connotazione socio-politica e, prima di eseguirle dal vivo al Teatro Manzoni, le hai opportunamente comunicate al pubblico. Sono rimasto colpito da “Habeas Corpus” che parla della storia di Maher Arar, cittadino canadese arrestato per un banale sospetto e poi deportato in un carcere siriano, imprigionato e torturato per 10 mesi. Cosa ti ha spinto a dedicare ad Arar un brano?
“Maher Arar è un cittadino canadese che, senza una ragione plausibile, è diventato vittima di un programma di straordinaria severità messo in atto dal governo americano per contrastare terrorismo e criminalità internazionale. Il programma aveva finalità importanti ma è stato messo in pratica in modo discutibile e dei semplici sospettati sono stati rinchiusi nelle celle anguste e malsane di carceri orribili ubicate in Paesi come la Siria. Il periodo di detenzione veniva segnato da tedio e denutrizione, con degli interludi costituiti da crudeli vessazioni e torture. La CIA era coinvolta in questa grossa operazione ma affidava alle forze dell’ordine straniere le pratiche più sporche e disumane. La storia di un Maher Arar, innocente che si trova coinvolto in un incubo orribile, è particolarmente rilevante per me perché il signor Arar si laurò nella stessa università che ho frequentato io a Montreal e mi è venuto da pensare: ‘Tutto ciò avrebbe potuto capitare anche a me o a una persona che amo. Cosa avrei potuto fare?’. Questa storia è una delle tante storie accadute alle persone  rimaste invischiate loro malgrado in un assurdo programma mondiale di detenzione preventiva voluto dal governo americano. A volte, quando le cose sono così spaventose, mi rendo conto che non posso fare assolutamente nulla per impedirle. Mi è concessa una sola azione: prendere atto che anche la follia è possibile. A quel punto non mi resta che lavorare con la musica”.


A quale scopo?
“Scrivere una partitura è la mia risposta al problema”.

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