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martedì 23 novembre 2010

Darcy James Argue @ T Manzoni

© Darcy James Argue

La musica raffinata e incisiva di Darcy James Argue (e dei 18 musicisti che compongono la big band Secret Society) ha scaldato dal palco del Teatro Manzoni una mattinata domenicale gonfia di pioggia e grigiori atmosferici. D J Argue è un abile compositore che sa spostarsi tra generi e umori musicali. Nelle sue composizioni ci sono echi sonori che evocano tanto Steve Reich quanto i Tortoise e i Tangerine Dream, nonché le immagini di 'vintage fantascientifico' proprie di fumetti come 'La Lega degli Straordinari Gentlemen' di Alan Moore. Di seguito trovate l'intervista concessa da D J Argue in esclusiva a 'AperitivoBlog'.


Jazz, post-rock, nu swing, exotica, colonne sonore, classica ottocentesca, avanguardia. La tua musica è il punto d’incontro tra generi ed epoche distanti. Come riesci a gestire il difficile compito di mettere in contatto stili e costumi tanto diversi?
“Io credo che la mia musica sia un riflesso di ciò che ascolto. Tento di incorporare nei pezzi che scrivo tutti gli elementi che ritengo significativi, sintetizzando numerose influenze per dare vita a un unico linguaggio che comprenda indie rock, post minimalismo, big band jazz”.


Una miscela personalizzata?
”Sì, allo scopo di arrivare ad un mio linguaggio, originale, unico e, soprattutto, plausibile. Per me è fondamentale che gli elementi presenti nella musica – melodie, ritmi, arrangiamenti – siano credibili. Così, quando chiedo alla mia big band di suonare un brano che ha forte componente rock, guido i musicisti affinché usino e mostrino quel tipo di energia musicale. Questo rende credibile l’esecuzione. È necessario fare uno sforzo di immedesimazione che riesce solo ai musicisti ‘speciali’, in grado di suonare qualsiasi cosa. Ci sono moltissimi bravi strumentisti che si trovano in difficoltà perché non hanno un vocabolario sufficientemente ricco e versatile. Queste lacune impediscono quel processo di immedesimazione di cui parlavo poco fa e portano a vivere la musica in superficie. Mentre è basilare essere sempre in condizione di suonare con passione e autorevolezza”.


Tra i tuoi maestri hai citato uno dei più grandi sceneggiatori di fumetti di tutti i tempi, Alan Moore, il creatore di capolavori come Watchmen, From Hell, League of Extraordinary Gentlemen. In quest’ultima graphic novel l’autore immagina un’epoca vittoriana fantascientifica, dove pullulano agenti speciali, computer analogici e/o meccanici, sofisticate apparecchiature che funzionano a vapore, dirigibili avveniristici e mongolfiere old style. Una sorta di  'vintage science fiction' che venne opportunamente definita 'steampunk' ed ebbe il suo momento di massimo fulgore a cavallo tra li anni Ottanta e Novanta. La tua big band è una "steampunk big band"?
“In effetti mi è capitato di usare la definizione ‘steampunk’ per descrivere sinteticamente Secret society, la big band che ho fondato nel 2005. Oltre a me ci sono 18 musicisti che usano strumenti classici, ovvero acustici (ad eccezione di un ‘modernissimo’ piano elettrico Fender Rhodes), riconfigurati in modo da portarli nella modernità e, quindi, al presente. Da una parte c’è il fascino della tecnologia vecchio stile, il pensare senza nostalgia al ‘futuro di una volta’. Dall’altra c’è la voglia di usare il passato per guardare al futuro e cercare di raggiungerlo. Quando esordirono, nella seconda metà del Novecento, le big band elettrificate trasformarono il modo di fruire la musica dal vivo. Sino a quel momento il suono acustico aveva costretto o indotto gli organizzatori a portare i concerti in luoghi di piccole o medie dimensioni. L'arrivo di amplificatori e pick up provocò una svolta, creò la possibilità di suonare per le grandi masse. Ma cosa sarebbe successo se una fantomatica tecnologia a vapore avesse anticipato il cambiamento rendendolo possibile, diciamo, già a metà Ottocento? Questa è la tipica ipotesi di storia alternativa à la steampunk. Aggiungo che, per me, parlare di steampunk vuol dire fare riferimento alla volontà di reinventare le possibilità per gli strumenti acustici, trovando nuove modalità e nuovi approcci per fare con i citati strumenti anche qualcosa che non rientrava nei piani di chi li aveva costruiti”. 


Operare con strumenti tradizionali in modo non tradizionale quindi?
“Direi in modo non convenzionale: questo ti porta ad un approccio che è simultaneamente  anacronistico e alterativo. Usi gli strumenti della Storia per creare una Storia alternativa, torni indietro nel tempo per commentare il passato e riscrivere il presente. Il riferimento a Alan Moore e allo steampunk è questo. E io l’ho portato nella mia musica”.
© Alan Moore - ABC


Molte delle tue composizioni – tutte strumentali - hanno una connotazione socio-politica e, prima di eseguirle dal vivo al Teatro Manzoni, le hai opportunamente comunicate al pubblico. Sono rimasto colpito da “Habeas Corpus” che parla della storia di Maher Arar, cittadino canadese arrestato per un banale sospetto e poi deportato in un carcere siriano, imprigionato e torturato per 10 mesi. Cosa ti ha spinto a dedicare ad Arar un brano?
“Maher Arar è un cittadino canadese che, senza una ragione plausibile, è diventato vittima di un programma di straordinaria severità messo in atto dal governo americano per contrastare terrorismo e criminalità internazionale. Il programma aveva finalità importanti ma è stato messo in pratica in modo discutibile e dei semplici sospettati sono stati rinchiusi nelle celle anguste e malsane di carceri orribili ubicate in Paesi come la Siria. Il periodo di detenzione veniva segnato da tedio e denutrizione, con degli interludi costituiti da crudeli vessazioni e torture. La CIA era coinvolta in questa grossa operazione ma affidava alle forze dell’ordine straniere le pratiche più sporche e disumane. La storia di un Maher Arar, innocente che si trova coinvolto in un incubo orribile, è particolarmente rilevante per me perché il signor Arar si laurò nella stessa università che ho frequentato io a Montreal e mi è venuto da pensare: ‘Tutto ciò avrebbe potuto capitare anche a me o a una persona che amo. Cosa avrei potuto fare?’. Questa storia è una delle tante storie accadute alle persone  rimaste invischiate loro malgrado in un assurdo programma mondiale di detenzione preventiva voluto dal governo americano. A volte, quando le cose sono così spaventose, mi rendo conto che non posso fare assolutamente nulla per impedirle. Mi è concessa una sola azione: prendere atto che anche la follia è possibile. A quel punto non mi resta che lavorare con la musica”.


A quale scopo?
“Scrivere una partitura è la mia risposta al problema”.

martedì 16 novembre 2010

Avi Lebovich @ Teatro Manzoni

Avi Lebovich & The Orchestra, ovvero: il suono di una big band del futuro. Ma l’intenzione del trombonista Avi Lebovich non è quella di dare vita a una sorta di ‘space big band´. Avi punta, piuttosto, a sviluppare e alimentare linguaggi espressivi nuovi e liberi, svincolati da griglie o regole che, se applicate in modo rigido, possono trasformare la musica in un freddo campionario di suoni asettici.
Domenica 14 novembre 2010 il concerto di Avi Lebovich & The Orchestra (il terzo della rassegna "Aperitivo in Concerto - 26esima stagione"), ricco di sapori urban jazz e di richiami alla world music medio-orientale, ha mostrato una band affiatata, dinamica e con il giusto groove. Ottimo il lavoro della sezione ritmica (Ron Almog alla batteria, Gilad Dobrecky alle percussioni, Mickey Wharshai al contrabbasso), della sezione fiati (nella quale spiccava il sax di Amit Friedman) e della possente violoncellista Maya Belsitzman, vrtuosa dalla tecnica impeccabile e dal piglio (quasi) rock. A tirare le fila di tutto ciò c’era Avi Lebovich, che ha diretto, suonato e, di quando in quando, persino ballato: segno che, per quanto riguarda la preparazione della sua Orchestra, non c0è niente di cui si debba preoccupare.


L’intervista
Avi, nella musica della tua Orchestra sono presenti numerose influenze che si amalgamano in modo armonioso e senza fagocitarsi reciprocamente. Tutto confluisce nel format orchestrale in modo insolitamente organico. Qual è il tuo approccio alla composizione e all’arrangiamento?
 “Alla base del mio approccio c’è la volontà di portare la mia big band in una nuova era. Viviamo in un mondo dove i computer dominano la comunicazione. Quindi una big band, oggi, non può più essere quella di un tempo. Che senso avrebbe immaginare una formazione con 5 tromboni o con 10 sassofoni nel 2010? Io credo si debba ragionare in termini di big band del futuro. La natura strutturale non cambia: una big band non è un trio o un quartetto. La mia Orchestra un tempo si chiamava Israeli Jazz Orchestra, ndr - ha 13 elementi, che in certe occasioni diventano 15, come nel concerto di domenica scorsa. Il modo di lavorare insieme è cresciuto nel corso degli anni. Non si tratta di un ensemble che nasce per fare una sola performance: il nostro è un lavoro continuativo che risponde a un’esigenza precisa della gente che ha ancora voglia di sentire delle buone orchestre ma vuole nuove idee. Noi viviamo in Israele e portiamo nella musica la nostra storia, la nostra energia, la nostra visione del mondo. Se suoniamo jazz o funk non lo facciamo didatticamente ma aggiungiamo l’Israeli feel che è la componente etnica della nostra personalità musicale. Quando la nostra violoncellista Maya Belsitzman suona non lo fa emulando Mstislav Rostropovich o Pablo Casals bensì come una solista che porta il mondo del violoncello in una nuova dimensione sonora. Lo stesso vale per la chitarra e per ognuno degli altri strumenti. Quando parlo di big band del futuro intendo proprio questo”


È la vostra forma mentis collettiva a rendere così originale il risultato finale?
“Certo. Quando io compongo lo faccio pensando alla Orchestra e ad ogni singolo musicista che ne fa parte. Conosco le peculiarità e le eccellenze di ognuno, con la scrittura le faccio emergere. Per suonare nella mia Orchestra non è necessario essere dei musicisti jazz, è necessario piuttosto essere dei musicisti incredibili, cioè possedere quella sensibilità statica che ti consente di prendere parte a un lavoro organico di insieme. La nostra sassofonista ha una formazione da musicista classica ma, nel corso del tempo, noi ci siamo avvicinati a lei e lei si è avvicinata a noi. La crescita reciproca e l’unione hanno contribuito a creare lo unique sound, il suono unico, la personalità speciale della Orchestra”.


Che tipo di controllo eserciti sulla Orchestra?
“Il controllo dell’amore, della fede, della passione. Quando suonavo con Slide Hampton o Roy Hargroove ho imparato che se credi davvero in ciò che fai potrai dare il meglio di te. L’unica forma di controllo che accetto è quella del cuore. Non un controllo alla Buddy Rich, che con i suoi musicisti era davvero molto severo e autoritario. Con Slide Hampton ho imparato che basta uno sguardo per farsi capire. Slide non diceva ‘Hai suonato male’. Se sbagliavi ti guardava e tu capivi immediatamente che non ti eri dato abbastanza da fare”.

Masada Marathon iPod Concert - Considerazioni

"A tutti è dovuto il mattino. 
Ad alcuni è concessa la notte. 
Solo agli eletti è destinata la luce dell'aurora"
Emily Dickinson


"Masada Marathon, Book of Angels - iPod Concert @ Teatro Manzoni" ovvero tre ore e mezza di musica scritta da John Zorn ed eseguita/interpretata da 12 formazioni che, da anni, ruotano intorno alla figura di questo prolifico, organico e instancabile compositore/musicista newyorkese. L'importanza dell'evento (prima mondiale, presentata all'interno della rassegna "Aperitivo in Concerto", fuori abbonamento) sta in tre ingredienti basilari.


(1) 
In primo luogo la quantità: portare sul palcoscenico un ensemble così articolato è di per sè un fatto rilevante e, in quest'epoca segnata dall'accumulo caotico di informazioni e/o imposizioni, diventa essenziale per dare notorietà, per far girare la voce, per creare interesse, per destare i media. E soprattutto per giocare (seriamente, molto seriamente) a ribaltare le consuetudini, proprio come piace fare a Zorn: anziché proporre 12 concerti in 12 giorni lui organizza 12 mini-concerti nella stessa serata e, come hanno visto gli entusiasti spettatori del lungo concerto, ne cura tanto la realizzazione quanto la successione con dedizione quasi materna. Zorn non si è limitato a suonare in due gruppi (Masada Quartet e Electric Masada) e a dirigerne altri tre (Bar Kokhba, Dreamers, Masada String Trio), ha pure indossato i panni del roadie estemporaneo, sistemando o prelevando strumenti, aste e microfoni. Nel booklet del suo album "At the Rebbe's Table" (Tzadik, 2002) il funambolico chitarrista Tim Sparks scrisse che Zorn ha un "entusiasmo contagioso". Vederlo in azione - in tutti i sensi - lunedì 8 novembre è stata la conferma delle parole di Sparks.


"Quando il Masada Quartet era in piena attività facevamo concerti in continuazione. Così era nato un modo di dire scherzoso: 'Qual è stato il nostro concerto migliore? Il prossimo!' "
(John Zorn, 2009)


(2) 
In secondo luogo la qualità: l'eclettismo musicale dello Zorn autore può lasciare sconcertati ma la meticolosa attenzione dedicata ad ognuno dei progetti che immagina e concretizza porta a risultati non meno che eccellenti. Questo concerto è stato godibile e riuscito dalla prima nota all'ultima. La struttura prevedeva, per la maggior parte delle band, tre brani a testa. Tutti i gruppi in azione si sono distinti per energia, originalità ed efficacia. La vitalità esuberante del Masada Quartet (Zorn, Douglas, Cohen, Baron), l'austera magnificenza del Courvoisier/Feldman Duo, la nevrastenia viscerale e irrefrenabile di Medeski Martin & Wood, la trascinante euforia ritmica del Banquet of the Spirits di Cyro Baptista (con Marsella, Keiper e Blumenkrantz), le straordinarie acrobazie melodiche del quartetto vocale Mycale (Gottlieb, Koutsovitis, Schecter, Zarra), l'eleganza creativa del Bar Kokhba (Feldman, Friedlander, Ribot, Cohen, Baron, Baptista - direzione: Zorn), l'ammiccante fascino retrò dei Dreamers (Ribot, Saft, Wollesen, Dunn, Baron, Baptista - direzione: Zorn), il classicismo spurio di Erik Friedlander, il rigore post-moderno del New Klezmer Trio 
(Goldberg, Cohen, Wollesen), il melting pot marziale del Bester Quartet (Bester, Tyrala, Dyyak, Pospieszalski), l'interplay misurato del Masada String Trio (Feldman, Friedlander, Cohen - direzione: Zorn), l'esplosiva e dirompente potenza dell'Electric Masada (Zorn, Mori, Saft, Ribot, Dunn, Baron, Wollesen, Baptista). 
Massimo Comun Divisore: la musica (e la supervisione) di John Zorn.


"Non bisogna sempre sfidare la audience. A volte è opportuno sfidare i musicisti per coinvolgerli in ciò che si sta facendo. E questo è sempre stato l'aspetto più evidente del mio modus operandi. Io non mi limito a scrivere della musica, io scrivo pensando agli specifici musicisti. Desidero che siano totalmente assorbiti da ciò che dovranno suonare. Voglio che si sentano chiamati in causa perché se si annoiano allora anche la audience si annoierà. Voglio che siano all'apice, che si sentano sorpresi e deliziati. Voglio che si divertano. In definitiva è una questione di amore: se ci amiamo l'un l'altro e se amiamo quello che stiamo facendo, una parte del nostro amore finirà dritta nel cuore della audience
(John Zorn, 2009)


(3) 
Infine la focalizzazione: "Masada 2 - Book of Angels" è un progetto che unisce e affratella generi provenienti da ambiti spazio-temporali non contigui: tradizione ebraica ashkenazita e sefardita, free-jazz, exotica, surf, pop, classica contemporanea, lounge, rock'n'roll, post-bop. A dispetto di ciò si tratta di un raro (e riuscito) esperimento di coesione musicale. E ad esso è stato dedicata l'intera esibizione, vanificando dispersioni di qualsiasi tipo, come a dire: Volete i Naked City? Sperate masochisticamente in un'apparizione a sorpresa di Moonchild? Desiderate con ardore un'incursione del Crowley String Quartet? Be', questa sera è di scena il Book of Angels quindi mettetevi l'anima - angelica o demoniaca che sia - in pace.


"Mi ritengo un musicista classico che lavora con musicisti di ogni tipo. La mia musica non è classica, non è jazz, non è rock. E' un nuovo tipo di musica
(John Zorn, 2009)


Un plauso va all'efficiente organizzazione de "Aperitivo in Concerto", che ha il merito di aver realizzato un'impresa spericolata e necessaria al contempo, dando vita a una serata magnifica, unica in tutti i sensi. Il numero limitato di posti ha provocato parecchio scontento in chi non è riuscito a procurarsi i biglietti d'ingresso (che sono andati esauriti in tempi rapidissimi) ma - visti i costi enormi (e lo sforzo colossale sostenuto in prima persona da Zorn) - replicare la maratona per una o due serate aggiuntive è stato impossibile. Per ora.
Ciò che conta è che questo concerto ci sia stato e che Zorn (insieme ai musicisti che compongono il suo "inner circle") continui a essere in piena attività, quindi chissà che in futuro non ci sia un nuovo, spettacolare ritorno di "Masada Marathon"? 
Keep in touch.


"Music is the Best" 
(Frank Zappa, 1979)

lunedì 15 novembre 2010

Zorn: Angels and Demons - Recensione

Martedì scorso il "Giornale della Musica" online ha pubblicato la recensione del concerto "Masada Marathon - Book Of Angels" (o se preferite: Masada 2 - iPod Concert) che ho scritto nelle ore immediatamente successive alla performance. 
La potete leggere cliccando qui

lunedì 8 novembre 2010

Parola di Zorn [4]

© Zorn's Lab
"Lavoro, lavoro e ancora lavoro. 
Per me il concetto di weekend non esiste. 
Non vado in vacanza. 
Ogni giorno è un giorno di lavoro. 
E ogni giorno è un giorno di festa, 
perché amo avere molte cose da fare"
John Zorn, 2010

Parola di Zorn [3]

© John Zorn, live 2010
"Vuoi capire chi sono? Ti faccio un esempio. Nella primavera del 2009 ricevetti una telefonata del'Ufficio Censimenti di NYC. Mi chiesero: "Lei quante ore al giorno lavora?". La mia risposta fu: "Ventiquattro!". Non è una battuta: lavoro anche quando dormo. Sto lavorando anche in questo momento. Mi sveglio alla mattina e la prima cosa che faccio è accendere il computer per rispondere alle e-mail. Vado a pranzo con qualcuno e si discute di musica o di arte. Prendo il taxi per andare al Museo e, durante il tragitto, sono al telefono che parlo di affari. Lavoro sempre. La mia vita è essere al lavoro. È per questo che sono sul Pianeta Terra. La gente è sorpresa dalla quantità di lavoro che porto avanti. Eppure è molto semplice: ho scelto di lavorare. Per questo non vado in vacanza: non mi interessa quel tipo di cose"
John Zorn, 2009

Paroladi Zorn [2]

© John Zorn & Dave Douglas
"Io non possiedo la TV. Non è una cosa inconcepibile e ti spiego perché. Il mondo è un groviglio di distrazioni e tutti comprendiamo che questa situazione rappresenta un vantaggio per il governo americano. Pensa soltanto a ciò che accadeva durante l'amministrazione Bush: la gente veniva incantata o instupidita da notizie manipolate e in questo modo si distraeva da tutto, soprattutto dalla possibilità di unire le forze collettivamente per dire: "Aspetta un minuto! Cosa sta succedendo?". Io ho scelto di non essere distratto. Immagino che, se non lo avessi fatto, negli ultimi 20 o 30 anni mi sarei dedicato a pensare ai problemi della società e non avrei lavorato granché. Ho gestito la mia situazione personale in modo semplice, tagliando fuori le distrazioni. Questo non significa che metta la testa sotto la sabbia, semplicemente elimino ciò che mi può impedire di lavorare. Si tratta di fare dei sacrifici, ad esempio non avere una famiglia. Chi ha dei figli dedica loro metà della propria vita e questo è il modo giusto di essere genitore. Io non posso farlo ma ho devozione per il lavoro. I miei figli sono le composizioni, i dischi, i concerti. E la mia famiglia? E' la community musicale. Per questa ragione non è così strano che io abbia creato The Stone o Tzadik. E' ciò che un padre fa quando si prende cura del figlio, vestendolo in modo adeguato, mandandolo in una buona scuola o proteggendolo dai bulli"
John Zorn, 2009

sabato 6 novembre 2010

Parola di Zorn

© John Zorn & Jamie Saft
"Ogni compositore ha delle radici culturali piantate in terreni differenti. Ultimamente penso a me stesso come ad un compositore classico che lavora con musicisti appartenenti ai tanti mondi di uno stesso universo musicale. Cos’è la mia musica? Non è un “genere”: non è il jazz, la classica, il rock. Ciò che sto facendo adesso è creare una nuova musica che incorpori elementi noti e inediti. Pensa a gruppi come Electric Masada o The Dreamers: ci sono richiami all’esperienza “Cobra” ed elementi di direzione d’orchestra tradizionali, basati sul coordinamento espressivo dell’insieme. Se allarghi la visuale a formazioni come Bar Kokhba l’intervallo di possibilità si amplia ulteriormente alla musica tradizionale ebraica, all’exotica, alla surf music. Dirigere una band in cui suonano artisti come Marc Ribot (chitarra) o Jamie Saft (tastiere) ti porta in un contesto che assomiglia molto al palco di un concerto rock. Queste fragranze sonore vengono bilanciate – a seconda dei momenti e delle performance - dal classicismo di musicisti come Mark Feldman (violino), Erik Friedlander (violoncello) o Uri Caine (pianoforte) dallo spirito aperto alle etnie musicali di strumentisti come Cyro Baptista (percussioni), Kenny Wollesen (vibrafono, percussioni) e Joey Baron (batteria). Nascono continuamente nuove strutture musicali dinamiche
John Zorn, 2009

venerdì 5 novembre 2010

Aspettando Masada 2 - iPod Concert [2]

Chi è John Zorn? Un compositore, un musicista polistrumentista, un fine intellettuale, un product manager e uno studioso di materie esoteriche (cabballa, demonologia, magia bianca, occultismo). E' un individuo iperattivo che passa il proprio tempo a lavorare ma sarebbe più corretto dire che l'attività principale di Zorn consiste nell'organizzare, pianificare e mettere sul mercato il proprio lavoro, ovvero nel portare a compimento una miriade di progetti 'a tema' che coinvolgono decine di musicisti. Nella natura umana l'incedere del tempo porta invecchiamento e obsolescenza, un inevitabile e tragico mix di senilità e perdita di energie. Per Zorn è vero il contrario, come lui stesso ammette in un'intervista rilasciata, nel 2009, a Bill Milkowski di "JazzTimes", in cui sostiene: "Sento che le cose cominciano ad andare per il verso giusto . Ho raggiunto la vetta e sto cavalcando un'onda che mi porta sempre più lontano. Qualcuno ha detto che chi è nato sotto il segno della Vergine, come me, è destinato a vivere in crescendo. Be', è vero: le cose migliorano giorno dopo giorno. Cos'altro potrei desiderare?". La discografia di questo autore ebraico newyorkese è un florilegio di generi musicali: jazz, avant-garde, contemporary, jazz, pop, rock, exotica, surf e minimalism, per non parlare di una congrua 'sezione' dedicata alle colonne sonore: a partire dal 1986 ne ha composte una sessantina, per altrettanti film caratterizzati dal fatto di essere indipendenti, underground e/o low budget - in aggiunta va detto che spesso si tratta di prodotti 'particolari' che spaziano tra generi piuttosto indigesti, soprattutto per i non 'addetti ai lavori', come film hard S&M espliciti, biografie di artisti mentalmente disturbati, autopsie.
Negli anni Novanta John Zorn ha allargato la propria visione della musica, includendo una attualizzazione delle tradizioni musicali ebraiche (ashkenazi e sefardi). Il progetto MASADA ha coperto dieci anni di attività (1993 - 2003, il quartetto Masada vedeva la presenza di Zorn, Dave Douglas, Greg Cohen, Joey Baron) e prodotto un ricco songbook contenente decine e decine di eccellenti composizioni. Qualche mese dopo aver festeggiato il decennale di MASADA Zorn si è detto: perchè non dare vita a un nuovo songbook? Facendo riferimento a due ambiti di studio ricchissimi ma frequentati soitamente da studiosi esperti (angelologia e demonologia) immagina un'esplorazione musicale nel segno degli angeli caduti. Nell'arco di tre mesi (siamo nell'estate2004) scrive trecenti brani e/o temi, usando un metodo semplice e efficace: prima di uscire di casa o una volta rientrato si siede al tavolo e compone, giorno dopo giorno, tutti i giorni. Nasce sulla carta "MASADA 2 - Book of Angels". A partire dall'anno successivo questi pezzi diventano, un po' alla volta, dischi. Il primo è "Book of Angels Vol. 1 - Astaroth", a cura del Jamie Saft Trio. Un angelo caduto (demone) dà il proprio nome all' album, altri demoni prestano il proprio nome che diventa il titolo dei pezzi contenuti nel disco stesso. Questa 'tradizione' verrà applicata all'intera serie. Ogni volume è eseguito - nella quasi totalità dei casi - da una formazione diversa e questa idea assicura una bella varietà che non tradisce una sostanziale continuità tematico/stilistica di fondo. Con l'autunno 2010 siamo arrivati a "Book of Angels Vol. 16 - Haborym" del Masada String Trio. E la serie continua.
Il concerto al Teatro Manzoni di lunedì 8 novembre 2010 (ore 21:00 - biglietti esauriti) comprenderà ben dodici delle band che hanno prestato il loro talento al progetto "Masada 2 - Book of Angels". Il trio di jazz destrutturato Medeski Martin & Wood, l'austero duo Couvoisier/Feldman (coppia nell'arte e nella vita), il galvanizzante e sanguigno ensemble Banquet of the Spirits guidato dallo scatenato percussionista di origini brasiliane Cyro Baptista, il quartetto vocale Mycale, i sestetti Bar Kokhba e Dreamers (questi ultimi sono l'evoluzione morbida della fantastica band Electric Masada), il violoncellista Erik Friedlander, il Masada String Trio, il New Klezmer Trio, il Bester Quartet (ex Cracow Klezmer Band). 
Infine - per tutti gli hardcore-fan dello Zorn più autentico e viscerale ci saranno due - come dire - rimpatriate: l'originale Masada Quartet e Electric Masada, uno dei gruppi più importanti di tutti i tempi.
Ci vediamo al Teatro Manzoni lunedì 8 novembre, alle 21:00. 

Aspettando Masada 2 - iPod Concert [1]

La carriera di John Zorn inizia nel 1973 a Lower East Manhattan. I suoi esordi sono caratterizzzati da una forte spinta verso la ricerca, la sperimentazione e l'avanguardia. Compone partiture articolate e complesse che gli permettono di focalizzare l'attenzione sulla improvvisazione strutturata e sui cosiddetti game pieces, ovvero delle 'aree musicali' di libera espressione in cui ogni musicista agisce nel rispetto di un limite periferico, che puè essere ritmico, armonico, tonale o concettuale. Negli anni Ottanta avviene la prima sterzata verso una musica più fruibile con la realizzazione dell'album "The Big Gundown - John Zorn plays the music of Ennio Morricone", un'opera che nasce da un'intuizione di Yale Evelev, all’epoca direttore della promozione presso NMDS New Music Distribution Service (attualmente Evelev è il co-proprietario di Luaka Bop, etichetta per la quale hanno inciso musicisti come Davd Byrne, Zap Mama, Tom Zé, Os Mutantes), che propone al compositore newyorkese di immaginare la rilettura di una porzione dello sterminato repertorio Morriconiano. Zorn mette subito le mani avanti dicendo: “Non posso farlo. La musica di Ennio Morricone è troppo perfetta”. Poi cambia idea e, chiamate a raccolta le punte di diamante della cosiddetta 'downtown scene' newyorkese (qualche nome: Fred Frith, Anthony Coleman, Bobby Previte, Bill Frisell, Arto Lindsay, Tim Berne, Anton Fier, Wayne Horvitz, Ned Rothenberg, Melvin Gibbs, Robert Quine, Diamanda Galas, Big John Patton, Mochihiro Sato, Orvin Aquart, Vicky Bodner, Bob James, Christian Marclay) dà vita al progetto. Il risultato entusiasma la critica e il sofisticato pubblico americano: Zorn opera in modo chirurgico sul lavoro del celebre compositore italiano, innestando suggestioni e riferimenti musicali che spaziano nel tempo e nello spazio con attenzione meticolosa e intelligenza interpretativa inusuale. 
Non si tratta di delirio post-moderno ma di debita appropriazioneartistica, nel rispetto dei brani originali.Lo stesso Morricone esprime giudizi altamente positivi su questo straordinario lavoro. In seguito - a partire dal 1985/86 - Zorn riceve una serie di commesse per la realizzazione di colonne sonore. L'esperienza "Big Gundown" getterà le basi per la nascita dell'acclamato progetto "Naked City" (nelle cui prime esecuzioni in pubblico sono presenti brani di Morricone come "Erotico"). Nei primissimi anni Novanta Zorn farà la spola con il Giappone, immergendosi nella cultura nipponica e maturando successivamente il desiderio di 'tornare a casa', ovvero ristabilirsi nella sua New York e ripercorrere la tradizione - musicale e spirituale - ebraica. Questa riscoperta delle proprie radici darà vita al progetto MASADA (ovvero: musica ashkenazi + musica sefardita + free jazz + improvvisazione empatica fortemente strutturata) e, a seguire, al progetto MASADA 2 - Book of Angels che arriva a Milano in tutta la propria magnificenza lunedì 8 novembre, alle ore 21:00, presso il Teatro Manzoni. La denominazione "Book of Angels" riferisce in realtà agli angeli caduti. Stando agli esperti di angelologia e di demonologia, quando un angelo cade sulla Terra diventa un genio, quando cade negli inferi diventa un diavolo. Questi ultimi sono i 'titolari' degli album (sedici a tutt'oggi) della serie "Book of Angels" che disegna la gerarchia delle legioni militari infernali: Astaroth, Asmodeus, Ipos, Xabaras, Malphas, Azazel, Orobas e una serie di altre inquietanti personalità infernali prestano il loro nome ai dischi di Masada 2 (ne sono usciti 16 sino ad oggi). 
Nell'universo musicale di "Masada 2 - Book of Angels" il dinamico Zorn ha trascinato una nutrita serie di straordinari musicisti come Marc Ribot, Jamie Saft, Erik Friedlander, John Medeski, Jaroslaw Bester, Ben Goldberg, Cyri Baptista, Sylvie Courvoisier. Lunedì 8 novembre saranno tutti a Milano, sul palco del Manzoni. Ogni band (12 in totale) avrà a disposizione una ventina di minuti per dare vita a una porzione del songbook "Masada 2", sotto l'occhio vigile e instancabile di John Zorn.