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martedì 16 novembre 2010

Avi Lebovich @ Teatro Manzoni

Avi Lebovich & The Orchestra, ovvero: il suono di una big band del futuro. Ma l’intenzione del trombonista Avi Lebovich non è quella di dare vita a una sorta di ‘space big band´. Avi punta, piuttosto, a sviluppare e alimentare linguaggi espressivi nuovi e liberi, svincolati da griglie o regole che, se applicate in modo rigido, possono trasformare la musica in un freddo campionario di suoni asettici.
Domenica 14 novembre 2010 il concerto di Avi Lebovich & The Orchestra (il terzo della rassegna "Aperitivo in Concerto - 26esima stagione"), ricco di sapori urban jazz e di richiami alla world music medio-orientale, ha mostrato una band affiatata, dinamica e con il giusto groove. Ottimo il lavoro della sezione ritmica (Ron Almog alla batteria, Gilad Dobrecky alle percussioni, Mickey Wharshai al contrabbasso), della sezione fiati (nella quale spiccava il sax di Amit Friedman) e della possente violoncellista Maya Belsitzman, vrtuosa dalla tecnica impeccabile e dal piglio (quasi) rock. A tirare le fila di tutto ciò c’era Avi Lebovich, che ha diretto, suonato e, di quando in quando, persino ballato: segno che, per quanto riguarda la preparazione della sua Orchestra, non c0è niente di cui si debba preoccupare.


L’intervista
Avi, nella musica della tua Orchestra sono presenti numerose influenze che si amalgamano in modo armonioso e senza fagocitarsi reciprocamente. Tutto confluisce nel format orchestrale in modo insolitamente organico. Qual è il tuo approccio alla composizione e all’arrangiamento?
 “Alla base del mio approccio c’è la volontà di portare la mia big band in una nuova era. Viviamo in un mondo dove i computer dominano la comunicazione. Quindi una big band, oggi, non può più essere quella di un tempo. Che senso avrebbe immaginare una formazione con 5 tromboni o con 10 sassofoni nel 2010? Io credo si debba ragionare in termini di big band del futuro. La natura strutturale non cambia: una big band non è un trio o un quartetto. La mia Orchestra un tempo si chiamava Israeli Jazz Orchestra, ndr - ha 13 elementi, che in certe occasioni diventano 15, come nel concerto di domenica scorsa. Il modo di lavorare insieme è cresciuto nel corso degli anni. Non si tratta di un ensemble che nasce per fare una sola performance: il nostro è un lavoro continuativo che risponde a un’esigenza precisa della gente che ha ancora voglia di sentire delle buone orchestre ma vuole nuove idee. Noi viviamo in Israele e portiamo nella musica la nostra storia, la nostra energia, la nostra visione del mondo. Se suoniamo jazz o funk non lo facciamo didatticamente ma aggiungiamo l’Israeli feel che è la componente etnica della nostra personalità musicale. Quando la nostra violoncellista Maya Belsitzman suona non lo fa emulando Mstislav Rostropovich o Pablo Casals bensì come una solista che porta il mondo del violoncello in una nuova dimensione sonora. Lo stesso vale per la chitarra e per ognuno degli altri strumenti. Quando parlo di big band del futuro intendo proprio questo”


È la vostra forma mentis collettiva a rendere così originale il risultato finale?
“Certo. Quando io compongo lo faccio pensando alla Orchestra e ad ogni singolo musicista che ne fa parte. Conosco le peculiarità e le eccellenze di ognuno, con la scrittura le faccio emergere. Per suonare nella mia Orchestra non è necessario essere dei musicisti jazz, è necessario piuttosto essere dei musicisti incredibili, cioè possedere quella sensibilità statica che ti consente di prendere parte a un lavoro organico di insieme. La nostra sassofonista ha una formazione da musicista classica ma, nel corso del tempo, noi ci siamo avvicinati a lei e lei si è avvicinata a noi. La crescita reciproca e l’unione hanno contribuito a creare lo unique sound, il suono unico, la personalità speciale della Orchestra”.


Che tipo di controllo eserciti sulla Orchestra?
“Il controllo dell’amore, della fede, della passione. Quando suonavo con Slide Hampton o Roy Hargroove ho imparato che se credi davvero in ciò che fai potrai dare il meglio di te. L’unica forma di controllo che accetto è quella del cuore. Non un controllo alla Buddy Rich, che con i suoi musicisti era davvero molto severo e autoritario. Con Slide Hampton ho imparato che basta uno sguardo per farsi capire. Slide non diceva ‘Hai suonato male’. Se sbagliavi ti guardava e tu capivi immediatamente che non ti eri dato abbastanza da fare”.

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