Domenica 14 novembre 2010 il concerto di Avi Lebovich & The Orchestra (il terzo della rassegna "Aperitivo in Concerto - 26esima stagione"), ricco di sapori urban jazz e di richiami alla world music medio-orientale, ha mostrato una band affiatata, dinamica e con il giusto groove. Ottimo il lavoro della sezione ritmica (Ron Almog alla batteria, Gilad Dobrecky alle percussioni, Mickey Wharshai al contrabbasso), della sezione fiati (nella quale spiccava il sax di Amit Friedman) e della possente violoncellista Maya Belsitzman, vrtuosa dalla tecnica impeccabile e dal piglio (quasi) rock. A tirare le fila di tutto ciò c’era Avi Lebovich, che ha diretto, suonato e, di quando in quando, persino ballato: segno che, per quanto riguarda la preparazione della sua Orchestra, non c0è niente di cui si debba preoccupare.
L’intervista
Avi, nella musica della tua Orchestra sono presenti numerose influenze che si amalgamano in modo armonioso e senza fagocitarsi reciprocamente. Tutto confluisce nel format orchestrale in modo insolitamente organico. Qual è il tuo approccio alla composizione e all’arrangiamento?

È la vostra forma mentis collettiva a rendere così originale il risultato finale?
“Certo. Quando io compongo lo faccio pensando alla Orchestra e ad ogni singolo musicista che ne fa parte. Conosco le peculiarità e le eccellenze di ognuno, con la scrittura le faccio emergere. Per suonare nella mia Orchestra non è necessario essere dei musicisti jazz, è necessario piuttosto essere dei musicisti incredibili, cioè possedere quella sensibilità statica che ti consente di prendere parte a un lavoro organico di insieme. La nostra sassofonista ha una formazione da musicista classica ma, nel corso del tempo, noi ci siamo avvicinati a lei e lei si è avvicinata a noi. La crescita reciproca e l’unione hanno contribuito a creare lo unique sound, il suono unico, la personalità speciale della Orchestra”.
Che tipo di controllo eserciti sulla Orchestra?
“Il controllo dell’amore, della fede, della passione. Quando suonavo con Slide Hampton o Roy Hargroove ho imparato che se credi davvero in ciò che fai potrai dare il meglio di te. L’unica forma di controllo che accetto è quella del cuore. Non un controllo alla Buddy Rich, che con i suoi musicisti era davvero molto severo e autoritario. Con Slide Hampton ho imparato che basta uno sguardo per farsi capire. Slide non diceva ‘Hai suonato male’. Se sbagliavi ti guardava e tu capivi immediatamente che non ti eri dato abbastanza da fare”.
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