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giovedì 23 dicembre 2010

Buone Feste da Aperitivo in Concerto

"Ogni sistema, accuratamente centrato su se stesso, non può sopportare gli altri, non può  realizzarsi con essi se non per coincidenze miracolose. 
Le opere del Novecento manifestano una rigidità estrema in tutti i campi della scrittura; l'opera non riesce a organizzarsi secondo una coerenza probante, suona male; la sua aggressività non è sempre deliberata (...).
Che reazione avere di fronte a questa situazione estrema? Una reazione di due specie: o far crollare il sistema dall'interno chiedendo ai numeri soltanto quello che ci possono dare - vale a dire pochissimo - oppure schivare le difficoltà con il libertinaggio, giustificandosi con considerazioni psicologiche o parapsicologiche abbastanza banali.
La seconda via è, ben inteso, la più allettante, perché richiede sforzi e immaginazione minimi"
Pierre Boulez
"Pensare la musica oggi", 
Einaudi 1979

martedì 7 dicembre 2010

Intervista a Travis Sullivan / Bjorkestra [download]

Per scaricare e ascoltare l'intervista a Travis Sullivan (trasmessa il 7 dicembre 2010 dalle frequenze di Radio Popolare) cliccate qui.


Informazione aggiuntiva relativa alla performance della Bjorkestrala scaletta del concerto di domenica scorsa comprendeva i seguenti brani di Bjork (ri-arrangiati da Travis Sullivan)
Overture to Dancer in the Dark
Hyperballad
Hunter
All is Full of Love
Alarm Call
Vespertine suite: Unison / Undo / Cocoon
Army of Me
Human Behaviour
Who Is It
Encore: I Go Humble

Intervista a Travis Sullivan / Bjorkestra [seconda parte]

© Bjorkestra live
La tua versione di ‘Army of Me’ si basa su un’orchestrazione molto complessa in cui confluiscono swing, free e noise. Qual è stato il tuo approccio a questo pezzo?
“Prima di scrivere l’arrangiamento per big band ne ho fatto la versione per un piccolo ensemble di soli sei musicisti. Le venti battute iniziali sono una semplice ri-armonizzazione del chorus. L’idea mi venne mentre ero seduto nel vagone della metropolitana. Sotto il profilo armonico, in seguito, si trattò di ristrutturare completamente il brano, che nel mio arrangiamento prevede cambi repentini in cui si passa dal jazz al caos in modo strutturato, nello stile di John Zorn ai tempi di Naked City. Abbinare o amalgamare degli elementi creando un contrasto, questo era l’obiettivo. In generale tutti i miei arrangiamenti si basano su una serie di possibili opzioni: [1] ri-orchestrare in modo consueto le canzoni di Bjork e poi affidarle a una Big Band, che significa comunque fare qualcosa di poco consueto; [2] ri-armonizzare completamente le canzoni di Bjork e variare il tempo, passando ad esempio da un 4/4 a un 5/4 o a un 3/4, cosa che ho fatto in più di una occasione, ad esempio in ‘Cocoon’ nella mia “Vespertine suite”; [3] ri-definire proprio tutto, anche le basi del pezzo, apportando cambiamenti strutturali alla versione originaria. La musica di Bjork ha degli elementi di forte riconoscibilità e, allo stesso tempo, ti dà una grande libertà creativa, è estremamente malleabile. Puoi cambiare lo stile e le canzoni continueranno a funzionare, perché hanno sostanza”.
© Blue Bjork


In questi sei anni di esperienza con Bjorkestra che tipo di reazioni hai avuto dalla audience?
“Negli Stati Uniti spesso il pubblico arriva e non sa esattamente cosa aspettarsi. C’è chi crede che si tratti di un qualcosa di goliardico o di esageratamente spettacolare. Altri, quando sentono parlare di big band, immaginano il gruppone che fa swing per persone di una certa età. Poi noi attacchiamo a suonare e scoprono che il nostro progetto si basa sull’approccio onesto al lavoro di Bjork. Buona musica, nient’alto che buona musica. Questo è ciò che arriva alla audience che risponde con entusiasmo, come è successo al Teatro Manzoni di Milano, con il pubblico di "Aperitivo in Concerto" ”.

Intervista a Travis Sullivan / Bjorkestra [prima parte]

© Travis Sullivan

Milano, 5 dicembre 2010
Il progetto Bjorkestra nacque nella mente del sassofonista Travis Sullivan nel 1998. L’idea iniziale fu quella di rileggere in chiave jazz il brano “Hyperballad” di Bjork. Un modo come un altro per lavorare con la musica. Sullivan mandava avanti la propria carriera solista e, contemporaneamente, studiava arrangiamento. Continuò a lavorare su “Hyperballad” nei ritagli di tempo. La sua versione di questa canzone vide finalmente la luce nel 2002. Sullivan si accorse di averci preso gusto e decise di lavorare a una nuova incursione nel mondo di Bjork: scelse il brano “Alarm Call”. Chiese un parere all’amico Sean Nowell (sax tenore, da sempre con Bjorkestra) che gli disse: “Hey man, questa è una grande idea! Dovresti cominciare a pensare di mettere in piedi una big band che suoni solo la musica di Bjork!’ “. L’idea affascinò Sullivan che decise di dare forma a una band concentrata sul repertorio di Bjork: “Il modo in cui io concettualizzai la questione fu quello di arrivare a una decisione: creare un ciclo di brani, arrangiati per voce e big band” racconta Sullivan e aggiunge: “ Un ciclo basato sulle canzoni di Bjork. Il progetto aveva preso vita e con questi presupposti il resto del lavoro si sviluppò in modo adeguato”.
© Bjork (colori Ferrania)


Come ti organizzasti per creare la tua big band dedicata al repertorio di Bjork?
“Partendo da una domanda semplice e inequivocabile: di cosa ho bisogno per dare vita a un progetto musicale davvero interessante? E mi riferisco sia alla band che ai brani da arrangiare e suonare. Dopo ‘Hyperballad’ in versione jazz e ‘Alarm Call’, nella quale avevo evidenziato certi toni gospel, scelsi ‘Human Behaviour’ che portai vicino al raggae. Prese forma l’idea di realizzare un arrangiamento diverso per ognuno dei brani che sarebbero entrati nel repertorio di Bjorkestra. Quando debuttammo al Knitting Factory di New York, nel 2004, avevamo dieci brani di Bjork, arrangiati da me. Oggi, a sei anni di distanza dal nostro primo concerto, ci sono altri dieci pezzi in più. A questo punto mi chiedo: musicalmente parlando che cosa ho dimenticato? Cosa è possibile fare o aggiungere? Cosa può sorprendermi ora?”


Data una struttura come quella che caratterizza i tuoi arrangiamenti, gli aspetti sorprendenti sono legati ai momenti di improvvisazione, soprattutto dal vivo, non credi?
“Molti brani danno ampio spazio all’improvvisazione. L’aspetto fondamentale, quello che fa stare in piedi tutta l’impalcatura, è fornire un contesto per ogni improvvisazione. Con brani come quelli di Bjork arrangiati per big band l’improvvisazione diventa parte dell’orchestrazione”.


(continua)

lunedì 6 dicembre 2010

On Monday

Lo straordinario concerto della Bjorkestra diretta da Travis Sullivan ha sorpreso e gratificato il pubblico di "Aperitivo in Concerto" che ha riempito il Teatro Manzoni ieri mattina. Milano era semi-deserta e in effetti, se si escludono le vie del centro, il resto della città sembrava il set di un film sulle conseguenze di un disastro nucleare. Probabilmente molti milanesi hanno lasciato la città approfittando del 'ponte' oppure si sono barricati in casa (fingendo di aver lasciato la città) o, ancora, sono andati al concerto della big band di Sullivan. Due ore di musica in crescendo, una scaletta che comprendeva esclusivamente composizioni della versatile autrice islandese Bjork rilette in modo originale e intelligente, con arrangiamenti che avvicinavano jazz, noise, reggae, rock e post-rock. Ogni musicista ha avuto spazio adeguato. Un plauso speciale all'ospite Dave Douglas (ex-insegnante di Sullivan) che ha dato un contributo eccezionale alla riuscita della performance. Una descrizione dettagliata del concerto verrà pubblicata in questo blog nelle prossime ore. 
Nel frattempo una segnalazione: se ancora non lo avete fatto, procuratevi e ascoltate "Ipsissimus" di John Zorn, quinto capitolo di una serie iniziata con "Moonchild" e continuata con "Astronome", "Heliogabalus", "The Crucible". Probabilmente "Ipsissimus" (nel quale suonano Mike Patton, Trevor Dunn, Joey Baron, Marc Ribot e John Zorn) è il più accessibile tra tutti quelli citati e risente dello spirito romantico che, da un paio di anni a questa parte, pervade beneficamente il lavoro di Zorn. Questo non significa che i brani siano distesi e avvolgenti come quelli di "Alhambra Love Songs". Ci sono momenti che grondano lirismo e altri che grondano sangue (nel senso figurato, anzi catartico della questione). Ma quando esce un album come "Ipsissimus" non si può fare finta di niente.

mercoledì 1 dicembre 2010

Aspettando Bjorkestra

© Bjork
Molti jazzisti illustri e famosi sono nati in centri urbani o in cittadine statunitensi che non hanno una particolare rilevanza nella Storia del jazz. Qualche esempio? Miles Davis (Alton, Illinois), Bill Evans (Plainfield, New Jersey), John Coltrane (Hamlet, North Carolina), Charlie Parker (Kansas City, Kansas), Jimmy Smith (Norristown, Pennsylvania), Wes Montgomery (Indianapolis, Indiana). Per molti di loro la scelta di traslocare nelle capitali della musica - New York su tutte - creò l'opportunità di unire le origini con il presente. Il talento fece tutto il resto. Il sassofonista e bandleader Travis Sullivan nasce nel New Hampshire (un altro 'luogo' che non ha grossi legami con la Storia del jazz) l'11 luglio 1971. Si avvicina al sassofono all'età di 10 anni e poco tempo dopo apprende i primi rudimenti di pianoforte. A 16 anni scopre il jazz grazie ad un insegnante lungimirante che lo invita a suonare gli standard e a studiare improvvisazione. Una volta conseguito il diploma si iscrive alla facoltà di biochimica dell'Università del New Hampshire, continuando in parallelo l'attività di musicista. Nella seconda metà degli anni Novanta si trasferisce a New York City. L'embrione dell'idea che sta alla base del progetto Bjorkestra prende forma nel 1998 e si concretizza nel 2004: nel settembre di quell'anno, infatti, la big band Bjorkestra debutta sul palco del glorioso Knitting Factory, all'epoca ubicato nel quartiere Tribeca di Manhattan. "Inizialmente la mia idea era quella di arrangiare il brano "Hyperballad" per la big band con cui mi esibivo" ha raccontato Sullivan "Avevamo un cantante scandinavo e fargli interpretare un brano scritto da un'autrice islandese mi sembrava una buona idea. Era il 1998 e, a partire da quel momento, mi avvicinai a piccoli passi al repertorio di Bjork. Per concludere l'arrangiamento di quel pezzo ci misi quattro anni. Un tempo eccessivamente lungo. Decisi che avrei messo insieme un corpus di brani nei quali il lavoro di Bjork aveva un ruolo centrale. Chi avrebbe mai detto che "Hyperballad" sarbbe stato l'inizio di una maledizione chiamata Bjorkestra! Scherzi a parte, ho scelto diversi pezzi di Bjork in modo più o meno intuitivo, assecondando il mio gusto ma soprattutto pensando in termini di big band, di variazioni di tempo, di stile e di umore, per avere un repertorio vario. 
© Bjorkestra, Bjork, Travis Sullivan
Canzone dopo canzone il mio approccio all'arrangiamento cambia. Il tratto comune è la reazione iniziale. Intendo dire che tengo sempre conto del primo impulso, che ovviamente non è sempre lo stesso e questa differenza si riflette negli arrangiamenti. 
Ho scoperto che la cosa migliore è partire riducendo il brano ai minimi termini - musicalmente parlando - così da avere in mano melodia e armonia di base, per partire da esse e costruire qualcosa di molto personale. Questo è il mio metodo oggi. Lo uso tanto con la musica di Bjork quanto con gli standard jazz. Ho una profonda gratitudine per Bjork, per il suo genio e per la sua inventiva. Tutte le canzoni di Bjork hanno sostanza e, se provi a scarnificarle togliendo aspetti produttivi e tecnologia, ti accorgi che stanno in piedi magnificamente".

martedì 23 novembre 2010

Darcy James Argue @ T Manzoni

© Darcy James Argue

La musica raffinata e incisiva di Darcy James Argue (e dei 18 musicisti che compongono la big band Secret Society) ha scaldato dal palco del Teatro Manzoni una mattinata domenicale gonfia di pioggia e grigiori atmosferici. D J Argue è un abile compositore che sa spostarsi tra generi e umori musicali. Nelle sue composizioni ci sono echi sonori che evocano tanto Steve Reich quanto i Tortoise e i Tangerine Dream, nonché le immagini di 'vintage fantascientifico' proprie di fumetti come 'La Lega degli Straordinari Gentlemen' di Alan Moore. Di seguito trovate l'intervista concessa da D J Argue in esclusiva a 'AperitivoBlog'.


Jazz, post-rock, nu swing, exotica, colonne sonore, classica ottocentesca, avanguardia. La tua musica è il punto d’incontro tra generi ed epoche distanti. Come riesci a gestire il difficile compito di mettere in contatto stili e costumi tanto diversi?
“Io credo che la mia musica sia un riflesso di ciò che ascolto. Tento di incorporare nei pezzi che scrivo tutti gli elementi che ritengo significativi, sintetizzando numerose influenze per dare vita a un unico linguaggio che comprenda indie rock, post minimalismo, big band jazz”.


Una miscela personalizzata?
”Sì, allo scopo di arrivare ad un mio linguaggio, originale, unico e, soprattutto, plausibile. Per me è fondamentale che gli elementi presenti nella musica – melodie, ritmi, arrangiamenti – siano credibili. Così, quando chiedo alla mia big band di suonare un brano che ha forte componente rock, guido i musicisti affinché usino e mostrino quel tipo di energia musicale. Questo rende credibile l’esecuzione. È necessario fare uno sforzo di immedesimazione che riesce solo ai musicisti ‘speciali’, in grado di suonare qualsiasi cosa. Ci sono moltissimi bravi strumentisti che si trovano in difficoltà perché non hanno un vocabolario sufficientemente ricco e versatile. Queste lacune impediscono quel processo di immedesimazione di cui parlavo poco fa e portano a vivere la musica in superficie. Mentre è basilare essere sempre in condizione di suonare con passione e autorevolezza”.


Tra i tuoi maestri hai citato uno dei più grandi sceneggiatori di fumetti di tutti i tempi, Alan Moore, il creatore di capolavori come Watchmen, From Hell, League of Extraordinary Gentlemen. In quest’ultima graphic novel l’autore immagina un’epoca vittoriana fantascientifica, dove pullulano agenti speciali, computer analogici e/o meccanici, sofisticate apparecchiature che funzionano a vapore, dirigibili avveniristici e mongolfiere old style. Una sorta di  'vintage science fiction' che venne opportunamente definita 'steampunk' ed ebbe il suo momento di massimo fulgore a cavallo tra li anni Ottanta e Novanta. La tua big band è una "steampunk big band"?
“In effetti mi è capitato di usare la definizione ‘steampunk’ per descrivere sinteticamente Secret society, la big band che ho fondato nel 2005. Oltre a me ci sono 18 musicisti che usano strumenti classici, ovvero acustici (ad eccezione di un ‘modernissimo’ piano elettrico Fender Rhodes), riconfigurati in modo da portarli nella modernità e, quindi, al presente. Da una parte c’è il fascino della tecnologia vecchio stile, il pensare senza nostalgia al ‘futuro di una volta’. Dall’altra c’è la voglia di usare il passato per guardare al futuro e cercare di raggiungerlo. Quando esordirono, nella seconda metà del Novecento, le big band elettrificate trasformarono il modo di fruire la musica dal vivo. Sino a quel momento il suono acustico aveva costretto o indotto gli organizzatori a portare i concerti in luoghi di piccole o medie dimensioni. L'arrivo di amplificatori e pick up provocò una svolta, creò la possibilità di suonare per le grandi masse. Ma cosa sarebbe successo se una fantomatica tecnologia a vapore avesse anticipato il cambiamento rendendolo possibile, diciamo, già a metà Ottocento? Questa è la tipica ipotesi di storia alternativa à la steampunk. Aggiungo che, per me, parlare di steampunk vuol dire fare riferimento alla volontà di reinventare le possibilità per gli strumenti acustici, trovando nuove modalità e nuovi approcci per fare con i citati strumenti anche qualcosa che non rientrava nei piani di chi li aveva costruiti”. 


Operare con strumenti tradizionali in modo non tradizionale quindi?
“Direi in modo non convenzionale: questo ti porta ad un approccio che è simultaneamente  anacronistico e alterativo. Usi gli strumenti della Storia per creare una Storia alternativa, torni indietro nel tempo per commentare il passato e riscrivere il presente. Il riferimento a Alan Moore e allo steampunk è questo. E io l’ho portato nella mia musica”.
© Alan Moore - ABC


Molte delle tue composizioni – tutte strumentali - hanno una connotazione socio-politica e, prima di eseguirle dal vivo al Teatro Manzoni, le hai opportunamente comunicate al pubblico. Sono rimasto colpito da “Habeas Corpus” che parla della storia di Maher Arar, cittadino canadese arrestato per un banale sospetto e poi deportato in un carcere siriano, imprigionato e torturato per 10 mesi. Cosa ti ha spinto a dedicare ad Arar un brano?
“Maher Arar è un cittadino canadese che, senza una ragione plausibile, è diventato vittima di un programma di straordinaria severità messo in atto dal governo americano per contrastare terrorismo e criminalità internazionale. Il programma aveva finalità importanti ma è stato messo in pratica in modo discutibile e dei semplici sospettati sono stati rinchiusi nelle celle anguste e malsane di carceri orribili ubicate in Paesi come la Siria. Il periodo di detenzione veniva segnato da tedio e denutrizione, con degli interludi costituiti da crudeli vessazioni e torture. La CIA era coinvolta in questa grossa operazione ma affidava alle forze dell’ordine straniere le pratiche più sporche e disumane. La storia di un Maher Arar, innocente che si trova coinvolto in un incubo orribile, è particolarmente rilevante per me perché il signor Arar si laurò nella stessa università che ho frequentato io a Montreal e mi è venuto da pensare: ‘Tutto ciò avrebbe potuto capitare anche a me o a una persona che amo. Cosa avrei potuto fare?’. Questa storia è una delle tante storie accadute alle persone  rimaste invischiate loro malgrado in un assurdo programma mondiale di detenzione preventiva voluto dal governo americano. A volte, quando le cose sono così spaventose, mi rendo conto che non posso fare assolutamente nulla per impedirle. Mi è concessa una sola azione: prendere atto che anche la follia è possibile. A quel punto non mi resta che lavorare con la musica”.


A quale scopo?
“Scrivere una partitura è la mia risposta al problema”.